A cura di Piergiorgio Strata, professore emerito di Neurofisiologia presso l’Università degli Studi di Torino, autore del libro “Dormire, forse sognare. Sonno e sogno nelle neuroscienze” (Carocci Editore)
Tutti sappiamo come una buona notte di sonno ci porti la mattina a un benefico ristoro che ci permette di iniziare con vigore una giornata di svago o di lavoro. Altrettanto siamo consapevoli di quanta irritazione e anche talvolta sofferenza, sia legata al non poter dormire anche per una sola notte o ancor più quando l’insonnia persiste nel tempo. Ma è così importante perdere un terzo della nostra vita annullando il nostro stato di coscienza?
Esiste una malattia genetica, per fortuna rarissima, che ci impedisce di dormire. Si chiama insonnia familiare fatale. Essa è dovuta a un gene malato che porta alla degenerazione di un particolare gruppo di neuroni che si trovano nel talamo, struttura critica per regolare in maniera ciclica l’attività della nostra corteccia cerebrale tra veglia e sonno. La malattia si manifesta in giovane età, progredisce nel tempo ed entro un anno porta a morte. Vari dati ottenuti sperimentali ci dicono che la soppressione totale di sonno porta entro circa tre settimane a gravi alterazioni incompatibili con la vita.
Normalmente il sonno si distingue in due fasi: il sonno a onde lente che domina nella prima parte della notte e il sonno con movimenti rapidi degli occhi, detto sonno REM (da Rapid Eye Movements). Le due fasi si alternano fra loro per 4-5 volte durante una singola notte. Questo alternarsi è dovuto a due strutture antagoniste che si trovano nell’ipotalamo chiamate centro del sonno e centro della veglia. Nella regolazione del ritmo sonno-veglia è anche coinvolta un’altra struttura, il sistema reticolare ascendente scoperto nel 1949 da Giuseppe Moruzzi e Horace Magoun.
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