(La Stampa, 20 luglio 2016)
Sempre più spesso nel processo penale la prova del DNA rappresenta una delle colonne dell’impianto accusatorio, al fine di collocare il colpevole sul luogo del delitto o per rinvenire materiale biologico sul corpo della vittima. Quella genetica resta l’analisi più definitiva e meno soggettiva rispetto alle vecchie tecniche forensi. Oggi la potenza della tecnica è talmente alta da consentire l’esame su quantità irrisorie di materiale; da qui, tuttavia, sorgono questioni di controversia circa la modalità di raccolta, la conservazione e il trattamento dei DNA nei laboratori.
Sono due prestigiose riviste scientifiche a metterci in guardia dai possibili rischi collegati alla prova del DNA: Nature nel novembre 2015 titola “La prova forense del DNA non è infallibile” e Scientific American nel numero di giugno di quest’anno “Quando il DNA implica l’innocenza”. Entrambe riportano un caso rappresentativo: nel dicembre del 2012 un senzatetto di nome Lukis Anderson fu accusato dell’omicidio di Raveesh Kumra, un multimilionario della Silicon Valley, sulla base di prove del DNA. L’uomo rischiava una possibile condanna a morte. Ma Anderson non era colpevole, avendo un alibi solido: ubriaco e quasi in stato comatoso, l’uomo era stato ricoverato in ospedale ed era rimasto sotto costante supervisione del medico durante la notte dell’omicidio. Più tardi il suo team legale spiegò che il DNA di Anderson era finito sulla scena del crimine, nella residenza di Kumra, a causa dei paramedici. Questi avevano prima assistito il senzatetto, venendo a contatto con i suoi liquidi corporei, e poi, senza ripulirsi pienamente, avevano tentato di rianimare il milionario, trasferendo su di lui tracce biologiche dell’innocente Anderson.
La questione ruota intorno al concetto di ‘touch DNA’, profili genetici di indagati e di presunti autori di reati che sono stati rilevati in laboratorio da appena una manciata di cellule della pelle lasciate, ad esempio, in un’impronta digitale. La biologa Cynthia M. Cale, dell’Università di Indianapolis, autrice dell’articolo di Nature, ha condotto un altro esperimento: una persona che usa un coltello da bistecca dopo aver stretto la mano a un altro soggetto potrebbe trasferire il DNA di questo sul manico del coltello. In un quinto dei campioni raccolti, la persona identificata come il principale contributore di DNA, in realtà non aveva mai toccato il coltello. I ricercatori non mettono in dubbio il risultato del DNA: se l’analisi evidenzia la presenza di un DNA su una mutandina è certo che quel DNA sia lì, quello che bisogna verificare è come quel DNA sia arrivato lì e come sia stato trattato dagli esperti forensi. Dalle pagine di Scientific American Erin E. Murphy, professore di diritto presso la New York University, e autore del libro “Il lato oscuro del DNA forense”, evidenzia che “Stiamo sperando disperatamente che il DNA verrà in nostro soccorso un giorno, ma è ancora parte di un sistema imperfetto. Se non si mettono nella giusta quantità scetticismo e moderazione nell’uso del metodo, potranno verificarsi errori giudiziari”.