Se l’Italia vuol far rientrare davvero i cervelli, ecco tutti i problemi che si devono ancora risolvere
Periodicamente, e anche in questi giorni, agenzie internazionali che valutano lo stato di salute della ricerca nel mondo ci piazzano ai primi posti. Tuttavia già nel 2012 l’allora ministro dell’Istruzione Francesco Profumo evidenziava che il differenziale tra la partecipazione italiana al Settimo Programma Quadro e i progetti europei riportati poi nel nostro Paese era tra 15 e 8,5: una cifra che, «in termini di risorse si traduce in mezzo miliardo all’anno di perdita».
Questi dati meritano un commento, illustrando i risultati pubblicati lo scorso dicembre sull’esito di un bando dell’Erc (lo European Research Council) riservato ai giovani che iniziano una carriera indipendente. Si noti che i finanziamenti ricevuti rappresentano una dote che il ricercatore porta con sé.
Da tutta Europa sono pervenute 2920 domande e solo 291, pari al 10%, sono state quelle selezionate. L’Italia conferma la sua eccellenza, piazzandosi al secondo posto con 31 finanziamenti dietro la Germania. Purtroppo, però, e questo è il dato che sconforta, 13 giovani spenderanno la loro dote in Paesi stranieri. Si tratta – come non mi stancherò di ripetere – di un’esportazione legale di capitali. Se stiliamo una classifica sui finanziamenti che verranno spesi in Italia, ci piazziamo solo al quinto posto, mentre il Regno Unito, che nella classifica era quarto, rimane invece il paradiso dei ricercatori, passando al primo posto come Paese che ospiterà più progetti, probabilmente perché offre migliori condizioni di lavoro.
Proviamo ora a stilare una classifica sulla base del numero di finanziamenti per milione di abitanti in ciascun Paese. Con 0,30 progetti per milione di abitanti ne usciamo al 15° posto. Dunque, le strutture di ricerca italiane non sono considerate «appealing». E, se non cambiamo qualcosa su questo aspetto fondamentale, siamo destinati ad aumentare il divario tra quello che legalmente esportiamo e quello che portiamo a casa, come già denunciava negli Anni 90 l’allora ministro della Ricerca Antonio Ruberti. Il cambiamento deve quindi mirare a creare condizioni di lavoro attraenti per rendere agevole e produttivo il fare ricerca: questa – come avviene con lo sport – è una realtà altamente competitiva.
Il premier Matteo Renzi ha ventilato l’idea di finanziare stipendi per il rientro di 500 ricercatori italiani che oggi si trovano all’estero. Ottimo, se si riuscisse a far rientrare chi porta con sé una buona dote e a reclutare stranieri, proprio come avviene nel Regno Unito. Ma con le attuali infrastrutture frammentate, con la scarsa mobilità interna e con le regole della pubblica amministrazione questa prospettiva non sarà affatto facile. Si noti che nel suddetto bando dell’Erc l’Italia è il Paese che ha la maggiore percentuale di ricercatori del settore delle scienze sociali, per le quali le infrastrutture sono meno importanti, al contrario dei soli tre finanziamenti nel settore delle scienze della vita, che richiedono, al contrario, laboratori e macchinari sempre più sofisticati. Su quest’ultimo punto in Italia dovrebbero svilupparsi e potenziarsi le collaborazioni interdisciplinari che fisicamente andrebbero a realizzarsi in grandi infrastrutture come già avviene in gran parte del mondo. Un esempio in Europa è il Crick Institute, che sta per essere inaugurato a Londra con 93 mila metri quadrati di superficie e 1600 persone tra scienziati e personale di supporto.
(Piergiorgio Strata su Stampa Tuttoscienze 27 gennaio 2016)