(Articolo a firma del professor Strata pubblicato sabato 7 marzo 2015 su La Stampa)
Caro Direttore,
l’Eurobarometro pubblicato lo scorso ottobre, dedicato alla «Percezione pubblica della scienza, della ricerca e dell’innovazione» presso i cittadini di venti paesi dell’Unione Europea, mostra un dato significativo che riguarda l’Italia: il campione intervistato risulta, tra quelli dei venti paesi considerati, il più pessimista sul futuro, cioè sulla capacità delle decisioni e soprattutto delle innovazioni tecnologiche e scientifiche di migliorare le cose. Per non parlare dei dati OCSE per i quali l’analfabetismo funzionale riguarda tre italiani su dieci. Questi sono dati che devono farci preoccupare perché riguardano la capacità di modificare il nostro futuro. Quali le cause? Come tornare a scommettere sull’avvenire?
Piovono in continuazione le più svariate proposte per rilanciare la ricerca pubblica in Italia, ma manca una vera discussione sulle criticità del nostro sistema di ricerca, in particolare per quanto riguarda il sistema universitario. Il dato di fatto ben acquisito da cui partire è la scarsa attrazione per gli scienziati a lavorare in Italia, siano essi italiani o stranieri. In serie competizioni internazionali siamo bravi a ottenere prestigiosi e sostanziosi finanziamenti, ma poi nel mercato globale c’è qualcuno che ti offre condizioni di lavoro migliori e i finanziamenti da noi ottenuti migrano all’estero in misura che non trova paragoni con nessuno dei nostri concorrenti. Un esempio: l’ERC – European Research Council – agenzia indipendente per il finanziamento in Europa della ricerca in tutte le discipline – ha pubblicato la classifica dei vincitori dell’ultimo bando UE «starting grant» che ha messo in palio 485 milioni per premiare l’eccellenza dei ricercatori promettenti della scienza europea: i giovani italiani si sono piazzati al terzo posto con 28 progetti, ma solo 11 progetti (pari al 39%) saranno svolti in Italia. Il che significa che la maggior parte degli investimenti confluirà nei laboratori stranieri. Ancor più preoccupante è la continua riduzione della quota che rimane in Italia. Negli starting grant del 2011 la percentuale era del 53%. Se poi consideriamo quanti sono gli stranieri che decidono di spendere i loro finanziamenti in Italia siamo il fanalino di coda con valori vicini allo zero.
Perché succede questo? Molti individuano nella carenza d’investimenti, che negli ultimi anni si è accentuata e ci preoccupa, la causa principale della crisi del sistema universitario. In realtà il problema non va identificato solo nella scarsità di investimenti, ma anche nella gestione dell’Università. Le Università non sono mai state responsabilizzate a una gestione autonoma ed efficiente per il solo fatto che sono organismi di diritto pubblico, in cui lo Stato amministra i dipendenti, le loro forme di reclutamento, le loro possibilità di carriera; questo contribuisce al cattivo utilizzo delle risorse acquisite, generando inefficienza e sprechi.
In secondo luogo il nostro sistema di formazione è svilito dall’eccessiva burocrazia. Qualunque acquisto, anche di modesta entità, richiede controlli smisurati. Inoltre, esiste una diffusa frammentazione delle infrastrutture che impedisce un efficace scambio di risorse, come la disponibilità di attrezzature che sono accessibili a piccoli gruppi. E non tralasciamo il personale tecnico-amministrativo troppo spesso poco motivato e adeguatamente preparato a svolgere il proprio lavoro, che invece richiede sempre maggiore professionalità. Non ultimo va rilevato che una volta acquisito un finanziamento sufficiente, soprattutto se il ricercatore è giovane, manca la possibilità di essere completamente indipendenti e lavorare senza ‘condizionamenti’ per proseguire la carriera.
La Legge Ruberti, definita anche ‘Legge dell’Autonomia’ propose una riforma del sistema universitario rivolta alla decentralizzazione: l’obiettivo principale di quella legge era rendere autonomi, nella loro amministrazione, i singoli atenei, legando le loro attività al raggiungimento di obiettivi di massima fissati dalle leggi dello Stato, ma per il resto lasciando completa autonomia nell’amministrazione ai singoli istituti universitari. Studenti, docenti e membri del personale sarebbero stati in prima persona responsabili del loro operato e avrebbero dovuto render conto di quello a qualcuno. Purtroppo tale riforma non si è mai concretizzata. Nel nostro Paese non riusciamo ad autogestirci, a essere competitivi, a concorrere. Siamo troppo attaccati alle rendite di posizione a scapito della libera concorrenza, basata sul merito. Negli altri Paesi le cose vanno diversamente e vanno soprattutto meglio, anche grazie ai nostri ricercatori. Stati Uniti e Gran Bretagna sono i Paesi che più di tutti ci sottraggono risorse intellettuali. Nei bandi ERC l’Università inglese è la prima per reclutamento di stranieri.
Quali sono le caratteristiche delle Università inglesi che le rendono così attraenti e assomigliano molto a quelle che voleva Ruberti? Sono Fondazioni riconosciute dallo Stato che operano in regime di diritto privato. Lo Stato fa valutare le Università dall’esterno in maniera molto semplificata ma che allo stesso tempo risponde a requisiti di efficienza, concedendo finanziamenti che poi sono in parte trasmessi ai singoli Dipartimenti sempre a seguito di analoga valutazione esterna ed è questa la riforma fondamentale che andrebbe applicata ai nostri Atenei. A questo punto le Università, con regole di funzionamento autonome e per nulla burocratizzate sono lasciate a una sana competizione, che permette, tra l’altro, di decidere le regole del reclutamento dei docenti e anche il loro salario.
In un Paese dove l’uso della ragione e delle prove scientifiche è continuamente sotto attacco e dove la buona politica è spesso debole, la realizzazione di queste riforme può adombrare effetti perversi. Tuttavia, credo che una discussione sulle criticità del nostro sistema di ricerca vada affrontata magari con qualche esperimento pilota.